Angelo è morto da quasi un mese. Era malato da dieci anni. L’ultima volta che ci siamo sentiti, come sempre, non ha edulcorato nulla. Come sempre nessun segno di stanchezza, insofferenza, malumore.
Quando con un messaggio su whatsapp una comune amica mi ha avvisato della sua morte, la prima reazione è stata: rabbia.
Il fatto che Angelo Ferrari non ci sia più mi priva di un amico, certo, ma priva tutti noi di un giornalista raro. E mai come oggi i giornalisti che sanno fare il proprio mestiere sono pochi e il loro lavoro importante.
A dare carburante alla mia rabbia c’è anche dell’altro. Angelo era uno dei più competenti, attenti, curiosi, liberi giornalisti italiani che scrivono di Africa.
l’Africa era il suo rifugio e i suoi libri che la raccontavano, sono di quanto più simile a Ryszard Kapuściński abbia mai letto.
E adesso? Certi vuoti come si colmano, si possono colmare? Temo di no.
Diciamolo con franchezza: a noi dell’Africa, vista sia nel suo insieme che nei mille dettagli che la compongono, non interessa nulla. Non importa a noi e non importa alla stragrande maggioranza dei media. L’Africa non appassiona i lettori, i telespettatori e i followers. Quindi gli editori se ne tengono a debita distanza.
Invece Angelo ha speso tre quarti della sua vita professionale a raccontare quel continente dall’interno. Soprattutto attraverso gli occhi degli africani. Persone che potevano nascere a Cremona, la sua città, ma che il fato ha catapultato a Brazzaville o a Abidjan. Con tutte le conseguenze, spesso dolorose, del caso.
Era lo stesso modo con il quale Kapuściński raccontava l’Africa negli anni settanta: vedere, compatire (nel senso pieno dell’etimo) e scrivere. Il maestro polacco ha forgiato almeno quattro generazioni di inviati e corrispondenti. Angelo era tra questi.
Leggete i libri di Angelo Ferrari, soprattutto l’ultimo che, di fatto, è la summa di una lunga stagione vissuta su due sponde: Europa e Africa.
Si intitola “Chissà come andrà a finire” e incrocia, con una scrittura che arriva dritta dover deve arrivare, la sua vita che fa i conti con la malattia e i volti, le storie, gli incontri africani. Lo ha pubblicato una piccola quanto competente case editrice torinese indipendente: OGzero.
Ho avuto il privilegio di leggerlo quando era ancora solo una bozza. “Cosa ne pensi Sante, lo pubblico?”. Gli ho risposto “Devi”.
Ho pianto leggendo quella bozza, più volte ho dovuto tirare il fiato, smettere. Poi riprendere. Mi vergogno quasi a definirlo un “testamento”, ma “Chissà come andrà a finire” è tutto ciò che Angelo è stato: figlio, fratello, giornalista, scrittore, amico, sposo.
Noi intanto sappiamo com’è andata a finire, ma rimane il problema del vuoto da colmare. Così come vorrei che la rabbia per questa perdita cedesse il passo a un sentimento più sereno, ma non è facile.
Visto però che l’imponderabile esiste, voglio provare a credere che un nuovo Angelo Ferrari sia già nato, che magari stia già scrivendo di Africa e se ne stia innamorando. Magari qualcuno che ha scoperto la stessa passione di Angelo leggendo i suoi libri.
Solo così, forse, un po’ di rabbia per la perdita di Angelo Ferrai troverà pace.
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