CHIARA FERRAGNI. LA LEZIONE CHE HO IMPARATO

Non avevo mai sentito parlare in pubblico Chiara Ferragni. Eppure con i suoi 30 milioni di followers è stata, secondo Forbes, una delle 50 più importanti “top creator” del 2023. Non certo una persona qualsiasi. Ho ascoltato quindi con curiosità l’intervista rilasciata a Fabio Fazio, domenica sera a Che Tempo Che Fa

PENSARE LE COSE DEL MONDO

Non ero tanto interessato alle questioni personali (l’ “affare Balocco” o la crisi coniugale), quanto al suo modo di pensare le cose del mondo. Una persona capace di costruire in pochi anni un impero che oggi vale 100 milioni di euro e diventare l’influencer (qualunque cosa significhi davvero questo termine) di riferimento per almeno un paio di generazioni (non solo in Italia), deve per forza avere un pensiero sulla realtà nella quale la sua impresa globale si muove.

È stata una delusione cocente e, almeno in parte, inaspettata. La pochezza del lessico e la banalità dell’analisi della Ferragni mi hanno stupito. Ho avuto la sensazione che fuori dal contesto social fosse spaesata. Come se la realtà (sebbene mediata dalla televisione, che è essa stessa una rappresentazione della realtà) la mettesse a disagio. Come se, avendo costruito le proprie fortune sul cloud, le fosse impossibile distinguere tra vero e verosimile (o falso). Tra materiale e immateriale. 

Eppure il CV di Chiara Ferragni segnala frequentazioni scolastiche importanti e i risultati delle sue aziende ne testimoniano capacità non comuni. Com’è possibile quindi che abbia percepito questa distonia? Fatico a darmi una risposta. Va molto di moda, ultimamente parlare di “gap generazionale” per segnalare l’incapacità delle persone attorno ai sessanta di comprendere il nuovo mondo della comunicazione. Sarà così. Il tempo corre a velocità doppia rispetto al recente passato, forse invecchio più rapidamente del previsto.

QUESTIONE DI ETÀ?

Ho iniziato a lavorare nella redazione di un settimanale locale scrivendo su una vecchia Remington e non riesco a fare davvero i conti con gli algoritmi, la comunicazione velocizzata, lo scrolling, la forma che prevale sulla sostanza. Tutte le parole sono ridotte a merce da bacheca, senza eccezioni. Tutto è appeso alle decisioni misteriose di Google Analytics, al linguaggio CEO, al posizionamento sul motore di ricerca.

Una volta per vendere più giornali o più dischi bastava mettere in bella vista una procace modella con le poppe quasi in vista (dagli album di Fausto Papetti alle copertine dell’Espresso, ai film di Fellini), ma il contenuto era salvo. 

Domenica scorsa, ascoltando il nulla elevato al cubo delle parole della Ferragni, quel senso di inadeguatezza (professionale, culturale, generazionale) che mi perseguita da tempo ha avuto un sussulto. Davvero è tutto qui? Davvero dietro quell’impero economico digitale c’è solo questo? Una ragazza vestita e truccata benissimo, educata e a modino, che però fatica a articolare pensieri complessi? Che non riesce a uscire dalla bolla digitale che ha magistralmente costruito e che l’ha resa ricca e famosa? 

UN DETTAGLIO PERSONALE

Aggiungo un dettaglio personale.

Il mese scorso una piccola agenzia pubblicitaria con la quale mi sono dovuto incrociare per motivi di lavoro, notando la mia difficoltà a entrare nel linguaggio del marketing digitale ha iniziato a trattarmi da povero pirla. Mail poco cortesi (con in copia tutti i partner) richieste ripetute (sempre via mail, sempre con tutti in copia) che sottintendevano la mia incapacità a comprendere cosa avrei dovuto fare e come. 

Ovviamente mi sentivo in difetto. Mi sento sempre in difetto a fronte di una critica che mi viene rivolta. Sia essa fondata o meno. La vecchia Remington è sempre lì a pesare come un macigno. 

Qualche giorno fa la campagna pubblicitaria della suddetta agenzia è andata on line. Quando ho visto il cosa e il come ho strabuzzato gli occhi: davvero hanno pensato questa cosa qui? Davvero questa idiozia funziona? Un lessico basico, senza un briciolo di calore e colore. Un’idea (idea?) priva di qualunque vicinanza al profilo del cliente, ma ricca di ammiccamenti da nativi digitali. Sempre gli stessi. Buoni per un formaggio, una mutanda, una Smart tv. Che però, pagando il giusto a Mr. Google e Mr. Meta, fanno engagement (si dice così). Altro che Remington e copertine dell’Espresso.

HO IMPARATO UNA COSA

La lezione che porto a casa da questo confronto intensivo con il marketing digitale e la comunicazione a base di algoritmi è la seguente: ciò che stiamo vivendo non mi sembra né un piccolo passo per l’uomo, né tantomeno un grande passo per l’umanità.

Abbiamo azzerato la complessità di pensiero e mandato all’ammasso tanto la coscienza critica (cosa è giusto e cosa è sbagliato?), che quella creativa (ci pensa ChatGPT).

Noi dai capelli brizzolati e le rughe ormai evidenti, abbiamo a lungo pensato che la tv commerciale di Silvio Berlusconi fosse il fondo del barile. Non era così.

La foto è tratta da Vanityfair.it

4 Comments on "CHIARA FERRAGNI. LA LEZIONE CHE HO IMPARATO"

  1. Caro Sante, è tutto molto più complesso – comunque – di così. Ma è vero che ci sono un sacco di percorsi (algoritmo, digital marketing ecc) nei quali fingere di essere capaci è ben diverso dall’esserlo davvero. Mi piacerebbe parlare con te, di questo, con calma 🙂

  2. Ciao Sante, prima hanno portato due generazioni allo scrolling creando un tempo di attenzione di circa 1 o 2 secondi. Poi, hanno abbassato il livello della comunicazione per stare dentro quel secondo. Ammessi che no faranno danni, è comunque un peccato imperdonabile. Massimo

Leave a comment

Your email address will not be published.


*