QUANDO IL MAROCCHINO ERO IO

C’è una parte di me, quella arrivata con mio padre nel 1955 a Torino, insieme a una valigia di cartone e un biglietto del treno di sola andata, che quando ha visto Cristiano Ronaldo, il giocatore più ricco del mondo, uscire dallo stadio in lacrime sconfitto da una squadra di calcio il cui valore complessivo (240 milioni di euro, secondo Transfermarkt.it) è nettamente inferiore al suo patrimonio economico (che, secondo Forbes, è di circa 350 milioni di euro), ha goduto come un riccio.

Da una paio di settimane a questa parte, quando l’arbitro fischia la fine delle partite mondiali dei Leoni dell’Atlante, Torino diventa una città satellite di Rabat. Sotto la Mole e dintorni abitano oltre 22.000 cittadini provenienti dal Marocco, mentre solo in Piemonte sono oltre 50 mila. Parliamo della comunità straniera più numerosa dopo quella rumena.

Sono tutti eredi di una migrazione iniziata oltre vent’anni fa, che non si è ancora fermata e non si vede perchè dovrebbe fermarsi. Siamo tutti migranti o già emigrati e lo siamo fin dalle origini della specie umana.

Vedere scendere in strada a far festa migliaia di cittadine e cittadini di origine marocchina, dopo mesi nei quali il nostro Governo si è messo a “fare la guerra alle ong” che salvano vite migranti nel Mediterraneo e a definire “carico residuale” bambini, donne e uomini in cerca di un futuro migliore, mi ha scatenato una libidine degna di circostanze diverse.

Rocco Altizio, da Minervino Murge, mio padre, è arrivato a Torino il 1 maggio di 68 anni fa e da allora ha dovuto pagare a lungo lo scotto delle proprie origini.

Il cartello “Non si affitta ai meridionali” lo ricordo ancora benissimo, così come ricordo che senza l’aiuto di una volontaria della parrocchia, noi Altizio una casa più grande nella quale andare a vivere non l’avremmo avuta. Era il 1973, i miei genitori lavoravano entrambi ed eravamo una delle tante famiglie neo piccolo- borghesi affrancatesi dall’anonimato grazie al lavoro salariale garantito dalla fabbrica. Solo che eravamo dei “napuli“, e per noi è stato a lungo un problema.

Non ho mai smesso, con orgoglio, di sentirmi un “napuli” e di vedere nell’emigrazione l’affermazione di un diritto inalienabile: crescere in un modo diverso da quello assegnato dal fato.

Il calcio è molto più di uno sport, lo sappiamo e in queste settimane è quanto mai evidente. Da Pasolini e Maradona, il football è la metafora delle metafore, uno specchio sociale che non deforma, ma riflette fedelmente la realtà.

Torino Nord bloccata dai suoi residenti in festa (gli immigrati e i figli degli immigrati non abitano nella ztl, in collina o in pre collina) è il volto della città che si manifesta in tutta la sua nuova vitalità. Questa ex metropoli è cambiata nel suo DNA e finalmente scende in piazza a mostrarsi senza timore. Può manifestarlo con gioia, perchè lo sport (per fortuna) può fare ciò che la politica non riesce nemmeno a immaginare.

Non vendono più fazzoletti ai semafori, non si affannano tra le cassette dei mercati generali, non si arrangiano tra un lavoro in nero e un’altro che nessun altro farebbe. C’è un pezzo di Torino che esiste da anni, è cresciuto, ha messo radici ed è tempo che trovi finalmente spazio, voce, ascolto, cittadinanza.

Non vedo l’ora di avere un sindaco i cui nonni siano di Rabat, di Bacau o di Lagos. Non vedo l’ora che si riconosca ai napuli del Terzo Millennio il ruolo che si sono guadagnati facendosi un mazzo così.

Quando il marocchino ero io, spesso mi vergognavo delle mie radici, dell’accento dei miei genitori, della conserva preparata sul balcone, delle feste di Natale troppo rumorose, di una famiglia più simile a una tribù, della necessità di non sembrare troppo meridionale agli occhi degli altri.

È tempo di riconoscere che dopo la mozzarella di bufala e le cime di rapa, anche il cous cous è parte di noi.

Forza Marocco.

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