LA VITA E LA MORTE (in diretta)

All’aereoporto di Kabul è appena scoppiata una bomba, forse due. Si stanno contando i morti. Che si sommano agli altri (tanti, sempre troppi) dei giorni scorsi. Tra poco cominciano i sorteggi di Champions League, l’evento calcistico del giorno, che segnerà la qualità dei mercoledì sera di milioni di persone. Fino a maggio.

Le due cose non stanno insieme, non dovrebbero stare insieme. Mentre le scrivo sento il rumore e il dolore della carta vetro sulla pelle. Eppure è così che funziona. Non è colpa di nessuno o, forse, è colpa di tutti. La vita e la morte nello stesso momento, a distanza di qualche ora di volo. A volte capita sullo stesso pianerottolo: il vicino di casa muore e tu festeggi il compleanno stappando spumante.

Succede, è successo e succederà.

Ogni volta che un dramma scuote un gruppo umano, e a Kabul, in questi giorni si sta consumando una carneficina della quale anche io come occidentale esportatore di democrazia sono il primo responsabile (il secondo è autoctono, abbraccia un Ak47 e spara sulla folla in nome di Allah), vorrei che tutto si fermasse: che tutti guardassimo in quella direzione, identica direzione, e che tutti questi sguardi puntati in un solo luogo, nello stesso momento, avessero il potere di sanare ferite, cucire tagli, riparare torti. Sistemare le cose, tutte le cose.

Invece no. Non può essere. Sono sogni, roba che manco il libro Cuore nella prima stesura. Uno come Dario Fabbri, mio riferimento geopolitico del momento, mi prenderebbe a ceffoni. La realtà e il sogno non convivono nella stessa dimensione.

Quindi su un canale assisti alla morte in diretta da Ka-bul, sull’altro al sorteggio della Champions. Sempre in diretta, ma da Istan-bul. Solo che mi sale un sottile velo di nausea e quindi spengo il televisore e schermi vari.

La vita va avanti. E anche la morte. Tutto secondo copione, ma che tristezza.

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