Ho fatto inversione quasi all’improvviso, seguendo l’istinto. Pensavo fosse chiuso. Stavo tornando da casa di papà dopo che la badante mi aveva dato il cambio.
Quando passo davanti al cimitero di via Torino le mando sempre solo un saluto con la mano, ma avendo visto i cancelli aperti, ci ho dovuto pensare giusto il tempo di capire come tornare sui miei passi.
Non andavo a trovare mia mamma da quando il buon Rocco ha smesso di potersi permettere di uscire di casa. Sono passati mesi. Ho perso il conto. Non ho mai amato i cimiteri, ma con la morte di mamma mi sono in parte riconciliato con un luogo che, tutto sommato, è perfetto per recuperare silenzio e ricordi.
Sono entrato. Era deserto, come nemmeno un cimitero sa essere. Solo, in un campo santo, ai tempi del Covid19, alle 11 e 30 di un giovedì di marzo freddo e grigio.
Sono passato prima dalle zie, poi dai nonni e poi ho raggiunto mamma. Tutti “vicini”. Noi terroni siamo così, facciamo famiglia anche da morti.
Ho approfittato del deserto e in piedi davanti a un muro di loculi, per qualche secondo, le ho parlato. Poche parole a voce chiara.
Mia mamma ed io non è che avessimo mai chiacchierato granché, ma avevo bisogno di vederla, anche solo ritratta in una foto su marmo e dirle “Ciao Mà, va tutto bene, ma non benissimo. Rocco sta così, lo vedi anche tu. Prova, se puoi, a fare qualcosa.”
Prima di entrare avevo raccolto da un brandello di prato quasi verde, un po’ di margherite formato puffo, ma decorose, e le ho lasciate sul davanzalino della lapide. Credo fosse la prima volta in assoluto che portavo dei fiori a mia mamma.
Andando via ho realizzato che mia mamma si chiama Rosa.
Un bel modo di dirlo con i fiori, vero Mà?
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